E’ ovvio.
E’ una legge divina, il karma: ad ogni azione, una reazione.
Ritiri la tanto desiderata Ducati dal concessionario? Piove. Piove e pioverà per sei mesi.
Ti arriva, comodamente a casa, il sofferto ed atteso telescopio? Hai passato gli ultimi giorni a visualizzarlo, a dargli un nome, a pensare dove metterlo, come usarlo. Hai vissuto notti insonni nel vano tentativo di partire con il piede giusto, di saperne a pacchi, di leggere tutto quanto umanamente scritto e concepito su forum, gruppi e recensioni.
E piove. Piove e pioverà per sei mesi.
Non rimane che portar pazienza.
Il Massachusetts Institute of Technology ha recentemente pubblicato uno studio la cui conclusione, se pur sconcertante, era annunciata: il numero di notti nuvolose, sopra la testa di un osservatore astronomico, è direttamente proporzionale al costo dello strumento acquistato.
Io ho dovuto portar pazienza per 6 settimane. Dopo quelle, per altri due mesi. Tutto sommato, lo trovo accettabile, anche se inizio a domandarmi perché abbia scelto un hobby così frustrante. A Noè, è andata decisamente peggio. Centocinquanta giorni di pioggia e pessimo seeing, il tutto per aver costruito, con i mezzi dell’epoca, un rudimentale binocolo per il bird watching. Corvi, colombe, qualche animale, se di passaggio. Annoiato ed arenato sul monte Ararat, non è che avesse un gran che da fare.
L’idea di uscire comunque, di provarci lo stesso, c’è sempre. Poco importa se le previsioni diano fulmini e tempesta, se le webcam remote mostrino chiaramente il cadavere di un visualista, mummificato, restituito dalle nevi di un ghiacciaio. La possibilità che mi stia perdendo una serata eccezionale ronza tra l’amigdala e lobo frontale, mette la pulce nell’orecchio. “E se non vado, e poi si rasserena?” Mi domando spesso. La verità è che se andassi, finirei per giocare a tennis con Filini e Fantozzi ragionier Ugo, matricola 1001/bis, dell’Ufficio Sinistri della Megaditta, nella nebbia, al buio, al freddo. Visibilità zero.
Rag. Filini: Ragioniere che fa? Batti?
Fantozzi: Ma mi da del tu?
Rag. Filini: No no, dicevo batti lei?
Fantozzi: Ahh congiuntivo! Aspetti!
Fortunatamente, posso investire il tempo che avrei dedicato all’osservazione documentandomi. In fin dei conti, il conoscere ciò che si stia osservando fa la notevole differenza tra il percepire passivamente lucette ed aloni o il godersi attivamente ammassi e galassie. Il piacere di un astrofilo nasce sulla carta, dai numeri e parole (e, perché no, dall’attesa). Si concretizza, poi, durante la serata osservativa, quasi fosse una riconferma. Non smetterò mai di sottolinearlo a chiunque abbia voglia di ascoltarmi: vedere, senza conoscere ciò che stia colpendo il nervo ottico, è solo… un vedere. Non è un guardare, non è un osservare. Sicuramente non è il modo giusto per approcciarsi agli astri. Un tenue fiocchetto di luce acquista la giusta e dovuta importanza non appena si realizzi il fatto che, nell’oculare, ci siano miliardi di stelle che ruotano, nascono ed esplodono all’interno di una lontanissima galassia. Polveri, materia, vita, luce ed energia.
Tutto in quella macchiolina.
Vista e considerata la cocciutaggine della nuvoletta fantozziana e che fatti non fummo per viver come bruti, in queste notti velate mi sono dedicando allo studio. Ho in mente un dettaglio, approfondisco quel poco che so di quel bagliore, quell’anello di fumo che m’ha stregato nella Lira: M57.
M57 è, come suggerisce il nome stesso, il cinquantasettesimo oggetto inserito da Charles Messier all’interno del proprio catalogo astronomico. Cocciuto e diligente cercatore di comete, stilò una lista di oggetti nebulosi che sarebbero potuti esser scambiati per comete ma, non muovendosi rispetto alla volta celeste, non erano da considerarsi tali. Creò, sulla base delle proprie osservazione ed a quelle di Pierre Mechain, una sorta di vademecum, un catalogo (il cui titolo originale è Catalogue des Nébuleuses et des Amas d’Étoiles) pubblicato sulla rivista scientifica Connaissance des Temps nel 1784. Lo scopo, dichiarato, era proprio quello di evitare che un osservatore potesse, erroneamente, catalogare come cometa qualcosa che non lo fosse. Poco nulla si conosceva, all’epoca, sulla natura e tipologia di questi oggetti.
M57 fu avvistata, da Charles, il 31 gennaio 1779. Oltre ad indicarne la posizione, la descrisse così, nei propri appunti:
Una chiazza di luce tra gamma e beta Lyrae, trovata cercando la cometa del 1779 che transita vicina. Sembra che questa macchia di luce, rotonda, sia composta di stelle molto piccole che con i migliori telescopi è impossibile risolvere; rimane quindi un sospetto. Messier riporta questa macchia luminosa sulla Carta della Cometa del 1779. Darquier di Toulouse la scoprì osservando la stessa cometa e riferisce: “Nebulosa tra gamma e beta Lyrae; molto velata ma perfettamente delimitata; grande quanto Giove, sembra un pianeta offuscato.”
Per i mezzi e le conoscenze di allora, in effetti, quell’oggetto doveva essere davvero esotico e particolare. Chiazza rotonda e luminosa, nebulosa velata. Pianeta offuscato o macchia di stelle irrisolvibili.
A dire il vero, qualche giorno prima di Messier, fu Antoine Darquier de Pellepoix ad osservare quell’oggetto e ad annotarne, nei propri appunti, quanto segue:
Per quanto io sappia, questa nebulosa non è ancora stata notata da alcun astronomo. Può esser vista in un buon telescopio, non assomiglia a nulla che sia già stato scoperto; ha la dimensione apparente di Giove, perfettamente rotonda e delimitata nettamente; la sua luminescenza opaca assomiglia alla parte scura della Luna prima e dopo l’ultimo quarto. Il centro appare un po’ meno pallido rispetto al resto della superficie.
Ci sarebbero voluti altri 150 anni per iniziare a capire, realmente, cosa fosse M57 e come funzioni questa tipologia di oggetti.

Era quindi osservando comete che, Messier, ebbe modo di trovare e catalogare questi oggetti nebulosi. Come spesso indicato nei suoi appunti, la presenza di quest’ultimi è stata inserita e segnalata, sotto forma di annotazione e disegno, nelle varie carte astronomiche da lui stesso redatte, volte ad indicare i movimenti e passaggi delle comete che, notte dopo notte, inseguiva nel buio. Il seguente è un interessante estratto della Carta della Cometa del 1779 dove, con il termine “Neb 1779” indicò i due oggetti nei pressi della Lira: M56 (di cui parleremo in altra sede) ed M57.

Non era il primo oggetto del genere che Messier aveva visto ed annotato. Pur non avendone idea, anche il ventisettesimo oggetto, M27, appartiene alla stessa classe. E’ lui ad avere il primato: è questo il primo oggetto del genere osservato, descritto e catalogato.
Su 110 elementi presenti nel Catalogo Messier, solo 4 fanno parte di questa tipologia. I restanti due sono M76 ed M97.
M27, 57, 76 e 97. In realtà: nebulose planetarie. Come siamo arrivati a capire cosa siano e come si comportino, lo vedremo a breve. Ovviamente, ce ne sono innumerevoli altre oltre alle 4 osservate nel ‘700, ma è proprio da queste quattro, note e ben visibili con il mio strumento, che ho iniziato un nuovo safari astronomico.
In particolare, nel mio caso, tutto è iniziato con un consiglio: “dà un occhio ad M57”, mi disse un amico, “dovrebbe esser visibile”.
Ed io l’occhio gliel’ho dato. E lui era visibile. Altroché!
Qualcosa di nuovo, diverso, affascinante. Qualcosa di incomprensibile, sconosciuto. Stavo osservando senza nulla sapere di quell’oggetto, esattamente come Messier, 238 anni or sono. Lui, da Parigi, io, da Induno. Lui, col parruccone e cipria, io, in canottiera.
A dire il vero, ci avevo già provato.
[Musica epica, flashback da cinema e surround]
Marzo 2017. Passo del Lucomagno. 1915m sul livello del mare, posteggio ghiacciato del deserto Hospezi S. Maria, chiuso per la stagione invernale. Solo. Buio. Raffiche di vento a 50km/h che, dai Grigioni, s’incanalano sull’altipiano ticinese: una landa desolata di neve e ghiaccio. Un volenteroso osservatore provvisto di binocolo lottava contro la frusta del vento per mantenere la presa salda e la circolazione sanguigna, nelle zone periferiche, attiva e funzionale. Ore 00.30. L’impavido esploratore, con un astuto barbatrucco, si fa scudo con la portiera, aperta, della propria auto. Un Leonida che, a spallate, si ripara dalle frecce e dai colpi di Eolo, accovacciato fuori dall’auto, puntando lo strumento verso l’alto. E’ tardi, ma c’è ancora spazio per un ultimo oggettino. Il sorgere della Lira, a Nord-Est, scatena un fremito pruriginoso dei polpastrelli. Quello, o il freddo. Il soldato imbacuccato controlla sul proprio smartphone la posizione di M57. Troppo bassa. La Luna, troppo alta, il freddo… troppo e basta. Vega, spavalda, data la manifesta difficoltà del cecchino, infierisce e getta il guanto di sfida con un luminoso μολὼν λαβέ. Osservazione rimandata, purtroppo. Il tutto, probabilmente, non prima di farsi apostrofare in quanto balabiòtt (italiano, per giunta, pericolosa aggravante per un uomo accovacciato al di fuori di un’auto) dal ticinese di turno che, caso vuole, passò per quella valle imbiancata, proprio in quel momento, senza nulla sapere di stelle, binocoli e spartani.
A dire il vero, all’epoca, non mi ero documentato un gran che su questo oggetto. Ne conoscevo il nome, ne avevo visto fotografie mozzafiato, ma non avevo idea di come, e se, si sarebbe palesato all’interno degli oculari del mio binocolo.
M75, NGC 6720, o Nebulosa Anello – chiamatela come volete – è una nebulosa planetaria nella costellazione della Lira. Quest’ultima, come molte altre, è una di quelle costellazioni che non ho mai conosciuto né calcolato, pur contenendo Vega, la quinta stella più luminosa del cielo. Non è una costellazione molto estesa, né particolarmente ricca ed articolata. In fin dei conti, è molto semplice da localizzare (grazie a Vega) e riconoscere. Trattasi, banalmente, di un piccolo trapezio o poco più, una rappresentazione stilizzata dello strumento musicale in questione, posizionato tra le costellazioni di Ercole, dell’Ofiuco, del Cigno e Dragone.

La Lira, in passato, è stata rappresentata come aquila, avvoltoio, o una combinazione degli stessi con lo strumento musicale. Non è insolito trovarne varie e diverse raffigurazioni a dipendenza del periodo storico di redazione.
Vega, abbagliante stella bianca, si trova nella parte superiore dello strumento (quantomeno, rispetto alla rappresentazione moderna ed in quella utilizzata da Messier). M57, invece, rimane nella parte inferiore, diametralmente opposta. Come annotato da Charles, la si può trovare tra la stella beta e gamma, Sheliak e Sulafat, nella parte centrale del manico.

La nebulosa si trova, grossomodo, sulla linea che congiunge le due stelle Sheliak e Sulafat, più o meno a metà tra gli astri. Trovarla è semplicissimo. Vederla, beh, dipende da quale sia lo strumento.
Probabilmente, agli oculari del mio 10×50, a Lucomagno in quella notte algida, sarebbe apparsa come una tenue stellina nebulosa. Un pallino pallido. Forse. Qualcosa di simile a quanto descritto dagli osservatori di 300 anni fa: un pianeta offuscato. Curioso, non accontentandomi del condizionale, ho avuto modo solo recentemente di puntare il binocolo in quella posizione. Sfortunatamente, M57 risulta essere poco più che un’apparente, sfuggevole, macchietta fioca appena percettibile. Sotto un cielo pece, perfettamente scuro e con un’ottima visibilità, credo di aver intravisto quell’oggetto in visione distolta, a fatica, e forse solo per il fatto di sapere che fosse lì. Ci riproverò, ma non è sicuramente un oggetto da gustarsi con un 10×50.
Ciò che serve, per goderselo, sono un’apertura ed ingrandimenti più generosi.
Osservandolo a 59x, con un dobson da 300mm di diametro, ricordo lo stupore e la sorpresa di scorgere quella lenticchia, quella bollicina grigia tanto diversa da tutte le stelle a lei attorno.
Prima ancora di godermene i dettagli, fu proprio la sua diversità, la peculiarità di quell’oggetto a colpirmi profondamente. Galassie? Check. Ammassi aperti? Visti! Globulari? Anche. M57? Qualcosa di nuovo, inaspettato.
Stupito, colpito ed affondato.
L’impressione è quella di osservare una bolla di sapone, una vescicola semitrasparente, traslucida, una perlina di vetro fumè. A 277x, invece, quella che sembrava una sottile membrana si risolve in in una serie di anelli di fumo, sovrapposti e concentrici, leggermente diversi gli uni dagli altri, per spessore, forma ed imperfezioni. L’anello, ciò che dà il nome alla nebulosa, diventa estremamente chiaro e definito in tutta la sua bellezza. Di colori, in visuale, manco l’ombra. Bianco e nero, declinati in un’infinita scala di grigi. Ho osservato M57, inseguendolo manualmente, per più di mezz’ora. Il tempo è passato prima che me ne accorgessi, preso com’ero dal mio guardare e studiare quel cerchietto di fumo, quasi ad assicurarmi che non svanisse nel nulla, come vapore al Sole.
L’ho trovato un oggetto stupendo, sorprendente. Tutto questo, nonostante i limiti che quell’osservazione mi imponesse: dal giardino di casa, in ciabatte, schiaffeggiato dai lampioni, umidità e vento (aggiungiamoci, anche, un telescopio probabilmente non acclimatato). Fatto sta che sia stata un’esperienza significativa, una rivincita rispetto a quella sera, sul ghiaccio, al gelo, in cui mi scappò questa meraviglia. Non a caso sarebbe stato uno dei primi oggetti della seguente osservazione, ben più in alto, ben più la buio, al successivo novilunio. Senza ciabatte.
Questi oggetti, pur splendidi in visuale, risultano fantastici soggetti fotografici. Il perché? E’ presto detto: forme e colori!

Non c’è che dire, sono oggetti stupendi. Ma… cosa sono?
Le nebulose planetarie sono un particolare tipo di nebulosa ad emissione. Questa famiglia di oggetti, composti da gas ionizzato, si accendono e brillano di luce propria grazie alla presenza, nelle vicinanze, di sensibili sorgenti di calore: le stelle.
Gas ionizzato. Mh.
Uno ione è un’entità molecolare (atomo o molecola che sia) elettricamente carica. Gli atomi, alla base delle molecole, sono formati da un nucleo al cui interno risiedono neutroni e protoni. All’esterno, un’insieme di elettroni ruota attorno al nucleo. La carica dell’entità, in condizioni normali, è neutra: il numero di protoni (positivi) ed elettroni (negativi) si equivalgono. I neutroni, neutri, non giocano alcun ruolo nell’equazione.

L’aggiunta o la perdita di uno o più elettroni sbilancia l’equilibrio atomico, trasformandolo, appunto, in uno ione. Questo processo avviene a causa dell’assorbimento di energia o della collisione tra particelle. Un elettrone viene perso o acquisito, modificando il bilanciamento della carica dell’atomo.

Nel nostro caso, è l’energia termonucleare di una vicina stella (o più stelle!) che interagisce con la nebulosa e sono gli atomi stessi della nube a collidere. La planetaria, pertanto, non rifletterà la luce dell’astro, ma ne assorbirà i fotoni. Gli atomi che la compongono ne verranno colpiti, dando luogo ad una moltitudine di ioni luminosi che, collidendo, ne genereranno altri.

Il colore e tonalità della luce prodotta dai gas dipendono dalla frequenza di emissione, direttamente legata alla tipologia del materiale ionizzato e a quante volte, quegli atomi, siano stati ionizzati. Il colore, quindi, è funzione non solo del materiale, ma anche della quantità di elettroni di cui quell’elemento disponga, in quel momento.
Nell’universo, il materiale più abbondante, semplice e leggero è l’ idrogeno. Un protone ed un elettrone. L’energia richiesta per la sua ionizzazione è relativamente bassa, pertanto è comune che una nebulosa ad emissione appaia completamente rossiccia, il (maggior) colore emesso dall’idrogeno ionizzato. Qualora ci fossero più elementi in sospensione e maggiori radiazioni nelle vicinanze – come nel caso di una nebulosa planetaria – elementi ben più pesanti dell’idrogeno, se presenti, verrebbero irradiati e ionizzati, dando origine ad emissioni dai più disparati colori: giallo, verde, blu, a seconda del materiale interessato. Per pesante, per peso, si intende il numero di protoni nel nucleo. Atomi più complessi hanno un maggior numero di protoni e, di riflesso, elettroni. La loro ionizzazione risulta, via via, più complessa e dispendiosa in termini di energia.

Vien da sé che più ci si allontana dalla stella, minore sarà la capacità dell’astro di ionizzare direttamente atomi e molecole. Più ci scosta da un fuoco, meno avvertiamo il suo calore. Man mano che ci si allontana, pertanto, incontreremo diversi (e minori) livelli energetici; ognuno in grado, o meno, di ionizzare elementi diversi. Atomi semplici, come idrogeno ed elio, richiedono relativamente poca energia per venire ionizzati. A differenza di quest’ultimi, l’apporto energetico richiesto da materiali pesanti (carbonio, azoto ed ossigeno) è sensibilmente maggiore e la loro ionizzazione, tipicamente, è per collisione. Tutto questo dà luogo a vere e proprie fasce di materia e colore, come evidenziato nell’immagine fotografica di M57, a seconda della distanza dalla stella (per quanto riguarda l’energia) e della densità del gas (per quanto riguarda le collisioni).
Le nebulose planetarie non sono semplicemente composte di polveri e gas dispersi nello spazio interstellare. Se così fosse, sarebbero “banali” nebulose ad emissione: polvere ed atomi leggeri, perlopiù idrogeno, abbastanza vicini ad una o più stelle per venirne influenzati, ionizzati ed infiammati (si fa per dire).
No, c’è di più: questi oggetti si compongono di due parti complementari: α ed ω, l’inizio e la fine. Una planetaria è lo yin e yang della nucleosintesi: una stella, morente, che sparge e rilascia la materia prodotta al suo interno. Un canto del cigno in cui gli strati superficiali, spinti violentemente nello spazio circostante, si allontanano dal ventre cosmico che li ha plasmati e prodotti, per poi venir colpiti e ionizzati dall’ultimo filo di voce di quella madre luminosa.
No, non è dell’idrogeno che, per coincidenza cosmica, si trova ad arrostire nei pressi di qualche gigante. Sono le spore di una nana bianca, esausta, spogliata della scorza. E’ elio, carbonio, azoto. E’ ossigeno, è neon. Sono tutti quei materiali che la stella sia riuscita a sintetizzare al suo interno, in milioni di anni, per poi regalarli, lasciarli andare, liberi di far parte di qualcos’altro che, forse, sarà.
Questi processi, queste nebulose, sono ciò che accade al termine della vita di stelle che abbiano dalle 0,3 alle 8 masse solari. Il Sole, ovviamente, non farà eccezione.
Queste stelle sono di dimensioni discrete, massicce, composte interamente di idrogeno, quantomeno nelle prime fasi. Il “peso” del loro peso grava (pesa!) sul nucleo che, data la pressione e temperatura, s’accende, fonde in elio, sprigionando un’enorme quantità di energia.
Esaurito l’idrogeno a disposizione, il nucleo si spegne, inizia a contrarsi, a comprimersi, sotto la spinta gravitazionale del resto della stella. E’ ora inerte, composto di elio, ma le temperature non sono ancora tali da permetterne la fusione. Il nocciolo, inattivo, non riesce più ad opporre resistenza alla forza gravitazionale dell’intera massa stellare: le reazioni che contrastavano il carico delle fasce esterne (spingendole lontano dal nucleo) non stanno più avendo luogo. Il peso stesso della stella grava, ora, sul nucleo che, impotente, si comprime aumentando vertiginosamente la propria temperatura. Il nocciolo, caldo e compresso, riscalda ciò che lo circonda. Questo evento, questo elevatissimo calore trasmesso agli strati intermedi, dà il via a processi di nucleosintesi in zone periferiche: nel “guscio” che racchiude il nocciolo dell’astro. Lì, infatti, c’è ancora dell’idrogeno che, ora, fonde.
Tum.

In questa fase non è più il nucleo a produrre energia e convertire materia, ma sono gli strati che lo avvolgono. Questi, riscaldati e fusi, spingono la massa periferica, superficiale, verso l’esterno, producendo un sensibilissimo aumento delle dimensioni dell’astro. La stella, a causa dell’energia prodotta dagli strati intermedi, aumenta di centinaia di volte il proprio volume e dimensioni. Come fosse un palloncino, l’astro si gonfia ed ingrandisce. Di un cazzilione di volte.

L’aumento delle dimensioni danno luogo ad un marcato innalzamento della luminosità, data la maggior superficie di emissione. Inoltre, all’aumentare del volume, si assiste alla diminuzione della temperatura superficiale dell’astro, facendolo apparire di uno spiccato color arancio.
Confusi? E’ una banale questione di conservazione dell’energia termica.
Permettetemi una descrizione sbagliata, incompleta e da babbano, ma efficace. Ipotizziamo di poter disporre di due bicchieri d’acqua bollente, alla stessa temperatura, e di due spugne dalla forma sferica, di differenti dimensioni: una più grande, una più piccola, entrambe sufficientemente porose ed assorbenti da poter contenere un intero bicchiere d’acqua. Versando i bicchieri sulle spugne, ad ognuna il suo, entrambe assorbiranno l’acqua bollente e la distribuiranno uniformemente al loro interno. Entrambe, ora, contengono la stessa quantità d’acqua. La spugna più piccola, però, ha distribuito il liquido in uno spazio ristretto, permettendo alla superficie esterna di venir maggiormente inzuppata, riscaldata. L’altra spugna, invece, più grande e voluminosa, ha distribuito l’acqua – e quindi il calore – in uno spazio (volume!) maggiore. La sua superficie, pertanto, sarà meno inzuppata e calda. A questo punto, senza scottarvi, riuscireste a tenere in mano solo la spugna di maggiori dimensioni, non l’altra, a causa del differente calore superficiale. Si noti, ancora una volta, che la quantità di acqua (e pertanto di “calore”, in senso lato) contenuta nei due oggetti sia la stessa. La differenza sta nella distribuzione del calore, non nella quantità assoluta dello stesso.
E’ in questo stadio che i moti convettivi, all’interno della gigante, portano negli strati superficiali materiale sintetizzato in profondità, rimescolando l’idrogeno (leggero, nelle parti esterne) con atomi pesanti (prodotti nelle fasce interne). All’esterno del nucleo, ciò che prima era “rigidamente” diviso in strati, come fosse una cipolla, ora fonde, ribolle, creando passaggi, degli ascensori stellari che permettono agli elementi di muoversi e rimescolarsi.
Tum, tum.

Raggiunta la corretta temperatura, nel nucleo (a riposo e compresso, nella fase precedente) si innescano le reazioni di fusione dell’elio. L’innesco causa la repentina espansione del nucleo ed è responsabile, invece, della contrazione degli strati superficiali, del loro innalzamento di temperatura (ricordate l’esempio delle spugne?) e dell’interruzione degli scambi convettivi. La stella, pertanto, apparirà più piccina e di colore biancastro. Di nuovo.
Tum tum. Tum.

Ora è il carbonio, frutto della fusione dell’elio, ad accumularsi nel nucleo. Quest’ultimo, all’esaurimento dell’elio, andrà nuovamente incontro ad una fase di inattività, compressione e relativo surriscaldamento. Di contro, il guscio tutt’attorno, riscaldato, darà inizio alla fusione dell’elio e sarà soggetto ad espansione. Ancora una volta, gli strati superficiali si raffredderanno, dando luogo ad un nuovo ciclo di rimescolamento convettivo di particelle leggere (superficiali) e pesanti (prodotte nelle viscere della stella).
L’astro aumenterà la propria dimensione, diminuirà la temperatura superficiale e tornerà ad assumere un colore rossastro. Di nuovo.
Il cuore della stella batte, pulsa. L’astro si dibatte, la materia viene espulsa.
Ad ogni ciclo, ad ogni contrazione ed espansione, il vento solare si fa via via meno trascurabile. Col passare del tempo, l’astro diventa sempre più instabile, andando incontro ad oscillazioni, in termini di dimensioni e temperature, frenetiche. Date le enormi dimensioni raggiunte, la parte superficiale risulta debolmente legata, gravitazionalmente, all’astro stesso. Ha così inizio un processo per cui la materia che componeva la stella (sia essa idrogeno o uno dei prodotti della nucleosintesi), venga rilasciata e diffusa in abbondanza nello spazio circostante, venendo meno l’attrazione gravitazionale, o letteralmente strappata e gettata tutt’attorno da un impetuoso vento solare.
Tum tum. Tum. Tum tum.

Al termine della propria fase evolutiva, nelle diverse pulsazioni, questa tipologia di oggetto perde completamente gli strati superficiali. Proprio quelli che, per miliardi di anni, hanno ricoperto il nucleo. Finito l’elio, con un nocciolo di carbonio ed ossigeno compatto, la dimensione e luminosità della stella diminuiscono, trasformandola in una nana bianca: una piccola stellina lattiginosa, ciò che resta della gigante rossa. Una biglia incandescente, un nanerottolo astrale, denso, che rilascerà il proprio calore nello spazio, a poco a poco, senza produrne di nuovo. La stella, è morta. Il suo corpo si sta raffreddando.
Ed eccoli l’ α ed ω. A voi la scelta, al lettore la decisione di quale sia l’uovo, chi la gallina. La stella, fucina di elementi, o gli elementi stessi, rilasciati e disseminati nello spazio, pronti per divenire parte integrante di una nuova nube da cui, perché no, potrà aver origine una nuova stella. O un gatto.
E’ questo connubio, questo duo, questa coppia indivisibile che dà forma e colore ad una nebulosa planetaria: una nana bianca che, con le proprie emissioni – il canto del cigno – irradia e ionizza i suoi strati più esterni, persi e gettati come semi colorati, tutt’attorno.
E’ il caso di dirlo: vita, morte e miracoli degli astri.
E’ in questi momenti, quelli in cui ragiono sulla complessa semplicità del tutto, che mi sembra di vederlo: un immenso tavolo verde, sui cui forze e volontà sconosciute giocano, pescano e mischiano carte. Quelle sono. E quelle rimangono. Passan di mano, una partita via l’altra: tris, coppie, figure e poker, per poi tornar nel mazzo, per un gioco diverso, allo stesso tavolo.
Torniamo ad M57.
L’ho definito una bolla, un anello, gas e polveri. Scorza, nebulosa. E’ chiaro che nel mio oculare non apparirebbe alcun che se non ci fosse, al centro, una stella morente. In effetti, è proprio così. Messier non riuscì a vederla (e nemmeno io, ad oggi) ma è lì. Una piccola (si fa per dire, è poco più della metà del nostro Sole) e decisamente fioca stellina che, tirate le cuoia, esala l’ultimo respiro. La sua magnitudine apparente oscilla ed è circa 15 o 16, sicuramente fuori dalla portata degli strumenti di 240 anni fa. E’ poco luminosa e sfuggevole. La nana bianca dista da noi circa 2300 anni luce ed è stata osservata per la prima volta da Jenő Gothard, un astronomo ungherese, solo nel 1886. L’astro, all’interno, ha un nucleo di carbonio ed ossigeno, frutto della nucleosintesi delle precedenti fasi . All’esterno, è avvolto da un sottile strato di materia, più leggera, in fase di dispersione. La temperatura superficiale è di circa 120000° (più di 20 volte quella del Sole!) ed è proprio quest’ultima la responsabile della dispersione e ionizzazione degli strati esterni. Si stima, studiandone i movimenti, che l’anello si stia espandendo da quantomeno 1600 anni. Come tutto, come sempre, è in movimento, in espansione, allontanandosi dalla propria stella: un cadavere che si raffredda. Causa del decesso: l’ astrofisica nucleare.
L’ho descritta come un anello, perché così è come appare. Ovviamente, non è affatto tonda e la questione è decisamente più complicata.
Quando osserviamo il cielo notturno, tendiamo a commettere lo stesso errore, tipicamente umano, dei nostri predecessori: semplifichiamo. Vedo un puntino? Sarà un puntino. Un anello? beh, un anello! Tutto fermo, per giunta!
Nah.
Le nebulose planetarie nascono da stelle morenti. Stelle tonde, tridimensionali, mica piadine. Ne consegue che gli strati superficiali, in balia di forze di repulsione ed attrazione, vengano, semplificando, espulsi in egual misura in ogni direzione. Pertanto, la planetaria for dummies, modello base, in equilibrio e non influenzata da agenti esterni, sarà perfettamente simmetrica, una sfera in espansione, al cui centro si trova la nana moribonda che l’ha originata. Solo il 20% delle nebulose planetarie risulta di questa forma. La semplicità non è di certo una caratteristica comune in natura.
Abell 39, tra tutte, è un bellissimo esempio di planetaria sferica.

Quando si parla di forma, pertanto, i fattori da tenere in considerazione sono due: il primo è il reale aspetto, tridimensionale, dell’oggetto. Il secondo è come la prospettiva ci possa ingannare.
Viviamo in uno spazio composto – quantomeno – da tre dimensioni. Il modo, posizione ed inclinazione con cui osserviamo qualsiasi cosa influiscono sensibilmente sulla nostra percezione. Posizionamento e piano prospettico sono fattori indispensabili, pertanto, per ipotizzare e comprendere la reale forma degli oggetti celesti, nebulose planetarie incluse.
Quindi, ‘sto M57?
Sicuramente non è un anello. La teoria comunemente accettata è che faccia parte delle planetarie bipolari. In questi oggetti la materia viene espulsa – manco a dirlo – da due zone polari, non necessariamente i poli magnetici dell’astro. Il gas, ionizzato, si irradia sotto forma di due, distinti ed opposti, getti di particelle. Il risultato di questo processo è il formarsi di una struttura che ricorda, nemmeno troppo lontanamente, una clessidra. Nella strozzatura: la nana bianca.
Di seguito, alcuni esempi. Dai più lampanti, dovuti alla prospettiva favorevole, a quelli più difficili, dove la prospettiva ci inganna, come M57. La sua tipica e peculiare forma ad anello, infatti, è dovuta al fatto – prospettico – che la stiamo osservando in direzione dei poli, come se stessimo osservando una clessidra dall’alto.




La prospettiva, pertanto, può giocare tiri mancini. E’ estremamente importante tenerne in considerazione se si vuole comprendere, ed apprezzare fino in fondo, quanto si stia osservando. D’altro canto, soprattutto in visuale, non è facile capirne e carpirne ogni dettaglio: forma e dimensioni sono complessi da stimare o, banalmente, percepire.
Un esempio che calza a pennello è M76. Il 21 ottobre 1780, dopo la segnalazione di Méchain, Messier scrisse:
Nebulosa sul piede destro di Andromeda, osservata da Méchain il 5 settembre 1780, che riferisce: “Questa nebulosa non contiene stelle, è piccola e debole”. Il 21 ottobre Messier la cercò con il suo telescopio acromatico e gli sembrò che comprendesse solo piccole stelle e nebulosità. La luce impiegata per illuminare al minimo il micrometro filare ne provocava la scomparsa. La posizione fu determinata dalla stella phi Andromedae, di quarta magnitudine.


Questo oggetto, da lui stesso definito “piccolo e debole”, si trova tra le costellazioni di Cassiopea, Perseo ed Andromeda. A destra della testa del guerriero, sotto il ginocchio della regina o, come annotò Messier, sopra il piede di Andromeda, M76 riempe lo spazio vuoto – si fa per dire – tra le tre costellazioni.

Formalmente, la nebulosa planetaria fa parte della costellazione del Perseo. Quest’ultima, ovviamente, è dedicata all’omonimo eroe greco che, sconfitta Medusa, salvò l’incatenata Andromeda. In qualsiasi sua rappresentazione, antica o moderna, lo ritroviamo con la testa del mostro nella mano sinistra, uno scudo o la spada nella destra.
La costellazione è abbastanza semplice da trovare e riconoscere, soprattutto aiutandosi con Cassiopea, nota e di facile individuazione. Tra le due costellazioni spicca il doppio ammasso del Perseo, visibile già ad occhio nudo, che si compone di due stupendi, e vicini, ammassi aperti. E’ proprio tracciando una linea da questo doppio ammasso sino all’ultima stella (HIP 3881) della catena di Andromeda che, a circa un terzo della distanza che le divide, è possibile trovare M76. Un altro, semplice, modo per identificarlo è quello di partire dal piede di Andromeda, Almach, e trovare, tra lei e Ruchbah di Cassiopea, HIP 8060, ovvero la stella meno luminosa delle due, solitarie, che è possibile vedere a metà tra i due astri. E’ proprio nelle vicinanze di quest’ultima, in direzione di Ruchbah, che è possibile trovare, agevolmente, M76.

Messier non spese molte parole su quest’oggetto. L’unica cosa che sottolineò fu quanto fosse tenue e difficile da osservare. In effetti, è proprio così! E’ uno degli oggetti meno luminosi all’interno del suo catalogo. Osservandolo con il mio dobson da 12″ mi rendo conto della difficoltà che debba aver avuto il povero Charles, 230 ani fa, nel capire cosa stesse guardando. All’oculare del mio telescopio appare un rettangolino, qualcosa dalla forma spiccatamente allungata e poco definito. Un torsolo di mela, come lo chiamano in molti. Osservando più a lungo, giocando con il focheggiatore e cercando di aguzzare la vista, è possibile notare come, attorno a quel che sembra un mattoncino, ci sia qualcosa, una leggera nebulosità evanescente. Quel rettangolino luminoso, comunque, rimane il tratto distintivo di questo oggetto.
Le mie osservazioni si sono limitate, per ora, all’utilizzo di due oculari e telescopio. Con il binocolo, il fidato 10×50, ci ho provato, ma la nebulosa non era visibile.
Ovviamente, M76 è ben lontano dall’essere solo ciò che ho visto ed avere quella forma. In questo, l’astrofotografia può svelare l’arcano.

Risulta chiaro, dall’immagine fotografica, che la nebulosa sia certamente più estesa rispetto a quanto sia riuscito ad osservare. La barra centrale, azzurra contornata di rosso, è la porzione di gas più vicina alla nana bianca che ha dato origine a questa meraviglia. E’ proprio questo, proprio lui, quel mattoncino che descrivevo poc’anzi. Il rosso, come già detto in precedenza, è indice di idrogeno ionizzato. L’azzurro: ossigeno. A quanto pare, sono questi (quantomeno in prevalenza) gli elementi che, la moritura, stia disseminando. Si notino, nelle regioni più lontane ed agli antipodi, dei riccioli, delle turbolenze, probabilmente generati da gas che vengono espulsi più velocemente rispetto all’espansione delle due bolle, dei due getti, che caratterizzano anche questa nebulosa. In molti la dipingono come se fosse composta da due ciambelle, una sull’altra. Dal nostro punto di vista, appaiono come se fossero su uno scaffale di una pasticceria, leggermente inclinate verso di noi. E’ come se stessimo osservando la torre di Pisa, ma da una posizione tale da non renderci conto che sia storta, se non per il fatto che stia pendendo esattamente verso di noi. Non pende a destra, non cade a sinistra. Viene verso di noi. La base della “ciambella” posta in alto, pertanto, si sovrappone otticamente alla parte superiore di quella sottostante. La barra rettangolare, quindi, corrisponde al punto di contatto, e sovrapposizione ottica, tra le due nebulosità. E’ come se osservassimo un’ostia (in questo caso sarebbe il piano di appoggio tra le due nebulose) che, inclinata verso di noi, appare ellittica e non sottile e piatta.
Non a caso, esattamente come in M57, la parte centrale e più vicina alla nana mostra ossigeno (blu) ionizzato: l’enorme calore sprigionato dalla stella e la maggiore densità dei gas, infatti, sono in grado di strappare e ricombinare gli elettroni a questi atomi relativamente pesanti. Nelle regioni periferiche, invece, è solo l’idrogeno, più leggero, rarefatto e meno pretenzioso in termine di energia richiesta, a venir ionizzato.
La stella al suo interno ha una magnitudine, circa, di 16, invisibile ad occhio nudo e complicata da risolvere con modesti strumenti amatoriali. Con i suoi 90000° di temperatura superficiale, dista da noi 2500 anni luce. Forse. E’ molto difficile, in generale, stabilire la distanza di una nebulosa planetaria. A dire il vero, fotografie amatoriali mostrano il fatto che si tratti, in realtà, di qualcosa di più rispetto ad un sistema singolo: è visibile una seconda compagna, gialla, della stella principale, azzurra. Ulteriori analisi compiute con il telescopio spaziale Hubble hanno dimostrato che la compagna, a sorpresa, sia composta da due stelle distinte.

Questo fa del centro della nebulosa un sistema triplo. Non ci sono dubbi, ad ogni modo, che la nebulosa sia stata generata dalla stella principale, quella calda ed azzurrognola, nella fotografia. Vien da sé che la presenza di più attori, nella nube, ne influenzi direttamente forma, dimensioni e movimenti nei più disparati, e spettacolari, modi.
La nebulosa – che poi è quel che realmente ci interessa – ha una magnitudine visuale di 10, rendendola un oggetto alla portata di strumenti amatoriali, se pur con scarsa soddisfazione.
Rimane, tra le 4 catalogate da Messier, la planetaria più deludente, in visuale, quantomeno per le osservazioni che ho avuto modo di compiere. Ciò non toglie che sia, ovviamente, un oggetto affascinante, per quanto tenue e rarefatto. Sono curioso di vedere, utilizzando dei filtri nebulari, come, e se, acquistino visibilità ed interesse i dettagli poco visibili. Ne parlerò più avanti.
Si stima che la nebulosa occupi uno spazio di 1.2 anni luce e che si espanda a circa 20km al secondo. M76 è anche famosa per avere diversi e disparati nomignoli: Nebulosa Tappo di Sughero (per la forma spiccatamente rettangolare della parte centrale), Piccola Nebulosa Manubrio (inteso come peso da palestra) o con la doppia sigla NGC 650 e NGC 651. Il motivo per la doppia attribuzione NGC è da ricercare nell’ipotesi, iniziale, che si trattasse di due oggetti, due nebulose differenti, in contatto tra loro. Le recenti osservazioni ed analisi hanno smentito questa ipotesi, propendendo per una natura bipolare dell’oggetto.
Il primo ad osservare questo oggetto fu, probabilmente, Giovanni Battista Hodierna, nel 1754. La riscoprì nel 1780, indipendentemente, Pierre Méchain, amico, collega e collaboratore di Messier che, in seguito alle proprie osservazioni, lo inserì nel proprio catalogo, come abbiamo avuto modo di leggere poco prima.
Ho spiegato cosa siano, sappiamo come si formano. Ma il nome?
“Nebulosa planetaria”, esattamente come “supernova” sono termini scorretti rimasti, nonostante l’errore, di uso comune. Sono sì nebulose, ma nulla hanno a che vedere con i pianeti. Il primo a coniare ed utilizzare questo termine fu William Herschel, un brillante astronomo inglese di origine tedesca che, affiancato dalla sorella Caroline (una delle prime donne a contribuire attivamente in questo campo) è lo scopritore del pianeta Urano (ed alcuni suoi satelliti). Il nome, banalmente, deriva dal fatto che questi oggetti, in particolar modo M27 e planetarie che ne condividono la prospettiva, apparissero come se fossero dei pianeti offuscati, esattamente come Urano.
M27, in effetti, è la nebulosa planetaria più semplice da osservare: grande, luminosa, bellissima. Il 12 luglio 1764, Messier scrisse:
Nebulosità priva di stelle, scoperta nella Volpetta, tra le due zampe anteriori e molto vicina alla stella 14 della costellazione, di quinta magnitudine secondo Flamsteed; è ben visibile in un telescopio di tre piedi e mezzo; ha una forma ovale e non contiene stelle. Messier ha inserito la sua posizione sulla Carta della Cometa del 1779, stampata per il volume dell’Accademia di quello stesso anno. Rivista il 31 gennaio 1781.

Ed ecco, per intero, la Carta della Cometa del 1779, di cui precedentemente avevo solo presentato un estratto, quello della Lira, per M57.

M27, come descritto da Charles, appartiene alla costellazione della Volpetta. Ammetto, ancora una volta, che prima di indagare questo oggetto non l’avevo mai considerata. Quest’ultima non è facilissima da identificare, essendo composta da astri poco luminosi e sicuramente non appariscenti. Per trovarla, l’approccio migliore è quello di identificare il becco del cigno, il bellissimo sistema Albireo, e scendere di poco, fino a riconoscere Anser, la gigante rossa che, insieme a 15 Vul rappresenta il binomio delle due uniche stelle che, ad occhio, io sappia attribuire alla costellazione.

Una volta capito quale posizione occupi, è semplice aguzzare la vista per identificare quella che, anticamente, era spesso rappresentata come una volpe con in bocca un’oca e con una delle zampe su di una freccia.
La nebulosa planetaria, in tutto il suo splendore, si trova sul segmento che si ottiene collegando 12 Sge con 15 Vul, a poco meno che metà strada tra le due stelle, in direzione della Freccia. Messier, come annotato all’interno del proprio catalogo, inserì la posizione di questo oggetto, e di un ammasso globulare nella Freccia (M71), nella Carta della Cometa del 1779. E’ curioso notare come, a differenza del solito, Messier si lasciò andare ad un virtuosismo descrittivo anche sulla mappa, definendo l’oggetto “Neb. belle“. La planetaria deve proprio essergli piaciuta!
In effetti, è un oggetto ragguardevole per dimensione e luminosità. E’ chiaramente visibile in un binocolo 10×50 e ti prende a schiaffi, tanto è grande e definito, con strumenti dalle aperture ed ingrandimenti maggiori.
Come per le precedenti nebulose osservate da Messier, anche M27 è una nebulosa planetaria bipolare. Nel suo caso, ne vediamo il piano equatoriale. La prospettiva ci permette di osservare i due getti, fuoriuscenti dai poli, che compongono la tipica “clessidra”. La struttura e composizione risultano notevolmente chiari in astro-fotografie, anche amatoriali, dell’oggetto.

In osservazione visuale, nonostante i colori latitino, le strutture dell’oggetto sono estremamente chiare. Secondo i recenti calcoli, M27 dista da noi circa 1300 anni luce ed ha una magnitudine apparente di 7.4. Si pensa abbia circa 9800 anni e che si stia espandendo a poco più che 30 km/s. La nebulosa appare davvero enorme ed ha anche un altro primato: quello di possedere la nana bianca di dimensioni superiori a qualsiasi altra nana conosciuta. In M27, come in altre nebulose, è possibile osservare quelli che gli astronomi chiamano “nodi”: concentrazioni di gas a diverse temperature e con differenti livelli energetici. Visivamente, sembrano nubi al tramonto.

Questa è, senza ombra di dubbio, la nebulosa planetaria più luminosa, grande ed appagante (fosse anche solo a binocolo) delle 4 riportate da Messier. Ricordo ancora lo stupore, la sorpresa, di vedere l’oculare riempirsi di tanta meraviglia.
Come in altre bipolari, anche nella Nebulosa Manubrio (così viene spesso chiamata M27) è stata osservata una seconda stella, oltre alla nana bianca. Sembrerebbe, quindi, che il motivo alla base della forma peculiare di queste nebulose dipenda proprio dall’interazione di più astri all’interno della stessa bolla di gas. Simulazioni informatiche e modelli matematici lo confermano. Semplificando, possiamo immaginare che la bolla, quella ipoteticamente generata una nana bianca indisturbata, venga in qualche modo presa al lazo che, tirato e stretto, ne deformi l’aspetto, fino a farla apparire come un otto, una clessidra. Il lazo, il colpevole, è la compagna (o, complicando, le compagne) che, in un sistema del genere, attira ed assorbe parte del materiale espulso dalla stella morente. Quale? Beh, quello presente sul piano della propria orbita.
Quest’oggetto, M27, non stregò solo Messier e fece dannare non poco anche William Herschel ed il figlio: John. William (che, ricordo, coniò il termine “nebulosa planetaria”) fu ingannato, per pura coincidenza prospettica, dalla presenza di astri nel disco della nebulosa. Nonostante non ci riuscì con i mezzi e tecnologie dell’epoca, si disse convinto che l’oggetto sarebbe stato risolvibile in stelle; in altre parole, credeva che la nube luminosa dipendesse da una moltitudine di stelle, come negli ammassi aperti o globulari, disposti in uno spazio ristretto. Era sicuro, infatti, che la sua forma fosse la conseguenza geometrica di due ammassi molto vicini e prospetticamente sovrapposti tra loro.

Una generazione più tardi, il figlio ripercorse le orme del padre. La chiamò “Nebulosa Manubrio” (il padre, invece, l’aveva paragonata al quadrante di un orologio) e la considerò per quella che era: una nebulosa, pur ignorandone natura e genesi. Un altro William, un altro astronomo: il Conte di Rosse, si incaponì sulla possibilità di risolvere l’oggetto in stelle e ci si dedicò anima e corpo. Ovviamente, fallì. Entrambi, a loro modo, descrissero l’oggetto, ne annotarono i dettagli e lasciarono, ai posteri, schizzi e disegni di quanto osservato.
Per le conoscenze dell’epoca, pur con tutta la buona volontà, metodo e rigore, era impossibile anche solo ipotizzare la genesi, composizione e struttura di oggetti simili. Mancavano gli strumenti, i principi fisico-nucleari e le teorie alla base della nucleosintesi stellare.
L’ultima scoperta, a livello temporale, è M97, avvistato da Charles il 24 marzo 1781, sempre su consiglio ed indicazione dell’amico Méchain. Eccone gli appunti:
Nebulosa nell’Orsa Maggiore, in prossimità della beta. “E’ difficile da vedere,” riporta Mechain, “specialmente quando uno illumina i fili del micrometro: la sua luce è debole, senza una stella”. Mechain la vide per la prima volta il 16 febbraio 1781, e la posizione è quella datami da lui. Vicino alla nebulosa ne vide un’altra ancora da determinare, ed anche una terza che è vicino alla gamma Ursae Majoris.
Le due nebulose ancora da determinare, verranno successivamente indagate e risulteranno negli oggetti M108 ed M109, due galassie. Non che Messier lo capì o sapesse. Per lui, rimasero delle vaghe nebulosità.

Questa planetaria, come annotato da Charles, è sita nell’Orsa Maggiore, probabilmente la costellazione più nota e conosciuta del nostro emisfero. O meglio, quella di cui, una parte, si conosce ed impara a riconoscere sin da piccini. Il resto, lo si ignora.

Il noto e riconoscibile asterismo del Grande Carro è quello che compone la coda e parte della schiena dell’animale celeste. Capita spesso che, semplificando, si identifichi l’intera costellazione solo con questa sua porzione. Di per sé, è sbagliato, ma comunemente accettato. Essendo una delle costellazioni più note, diffuse e tramandate, anche la sua rappresentazione e descrizione, attraverso i diversi periodi storici, sono molto simili.
Messier, oltre a riportare le difficoltà osservative di Mechain, non investì troppo tempo, né inchiostro, nella descrizione di questo oggetto. Il motivo è da ricercarsi proprio nella difficoltà, per uno strumento dell’epoca, di catturare la luce di questa planetaria e palesarla agli occhi dell’astronomo di turno. Ci vollero degli anni ed un sensibile avanzamento tecnologico prima che, qualcuno, ne iniziasse ad apprezzare, e disegnare, i particolari.
M97 è relativamente semplice da identificare: rimane tra le stelle Phecda e Merak, non esattamente sul segmento che li collega, ma quasi. Quello che noi chiamiamo Grande Carro, gli anglosassoni tendono ad identificare come un “Grande Mestolo” (Big Dipper) e, in questo, non posso che dargli ragione. Mantenendo la similitudine, la planetaria rimarrebbe proprio sotto la base del mestolo, molto vicino a Merak, in direzione di Phecda a circa un terzo della distanza che li separa. Foste in dubbio, tracciando una linea immaginaria tra Al Kaphrah e Merak, M97 risulterebbe all’interno del triangolo avente, come ulteriore vertice, Phecda.
Confusi? Puntate ‘sto telescopio, è facile da trovare.

A binocolo, con il mio 10×50, non sono riuscito ad identificarla, nonostante la visibilità fosse buona. Riproverò, ma credo che sia necessario quantomeno un 20×80. A telescopio, la situazione cambia sensibilmente.
La planetaria risulta ben visibile sia a 59x che a 277x. Di seguito, una simulazione di quanto sia riuscito ad osservare.
A bassi ingrandimenti si iniziano ad intuirne dettagli interni che, ingrandendo, risultano prepotentemente visibili. A campo largo è un oggetto particolarmente interessante data la sua vicinanza con M108, piacevolissima la visione di entrambi nello stesso campo visivo. Focalizzandosi sul campo stretto, invece, diventa presto chiaro il motivo per cui, quest’oggetto, venga chiamato Nebulosa Civetta (o Gufo).


La peculiarità di questo oggetto sta nella sua forma ben definita e in quelle due zone scure, tondeggianti, che ricordano gli occhi di un uccello notturno. Il primo ad affibbiarle quel nome fu il precedentemente citato Lord Rosse, che la descrisse come segue:
Due stelle considerevolmente distanti nella regione centrale, penombra scura per ogni spirale, con stelle come centri di attrazione. Contiene astri scintillanti; risolvibile.
Rosse non si limitò alle parole per descriverne la forma. Il suo schizzo di M97 è ormai passato alla storia.

La struttura di questa planetaria è estremamente interessante. E’ composta da diversi “gusci” concentrici, leggermente sfalsati. Sono evidenti in astrofotografia, un po’ meno in visuale. Sull’origine ed interpretazione delle due zone scure, dei due occhi, gli esperti ancora dibattono. Potrebbero indicare la “strozzatura della clessidra”, inscrivendola all’interno della bolla. Potrebbero dipendere da giochi prospettici innescati da geometrie e forme particolari. Non lo sappiamo con certezza. Nulla ci vieta, però, di osservarli e goderne.
La nebulosa planetaria ha una magnitudine visuale di 9.9 e sembrerebbe distare 2500 anni luce da noi. La nana bianca al suo interno ha una temperatura di 85000 gradi circa ed ha una magnitudine di 14. I dati raccolti sin ora ci portano a pensare che sia una planetaria molto vecchia, di circa 6-8000 anni. Risulta, infatti, molto estesa e rarefatta, la sua densità è circa un decimo rispetto alle altre.
Le spore, a quanto pare, si stan disperdendo nel bosco astronomico.
Sappiamo che una planetaria nasce dagli spasmi di una madre moritura, per poi dissolversi nello spazio circostante. Il tutto, in quanto?
Dipende. Ciò che è certo è che, astronomicamente parlando, il tutto duri meno d’un battito di ciglia. Cosa volete che siano diecimila anni – questo si pensa essere il tempo di dispersione del materiale – se paragonati ai milioni di anni (come minimo, 40) della madre? E’ questo il motivo per cui, di questi oggetti, se ne conoscano ben pochi, in relazione al numero degli altri. Quattro su centodieci oggetti, per Messier. Un’ ipotesi di ventimila, nella Via Lattea, secondo le moderne stime.
Non è solo un evento raro, ma anche un evento di cui è raro accorgersi. Lampi sfuggevoli per chi, come noi, ha una visibilità temporale ben limitata.
C’è ancora molto di questi oggetti che dobbiamo comprendere e spiegare, molti sono i dubbi e le inconsistenze, ma quantomeno ne conosciamo i meccanismi principali. Ovviamente, non è sempre stato così.
Dopo decenni di domande, ipotesi e dubbi a riguardo, i primi significativi passi in avanti vennero eseguiti, a gran falcate, dall’astronomo tedesco Joseph von Fraunhofer. La sua storia ha dell’incredibile e merita una breve digressione. Nacque nel 1787 e divenne orfano all’età di 11 anni. Da allora, lavorò come apprendista nella modesta bottega di un vetraio, con il solo ed unico scopo di sopravvivere. All’età di 14 anni, nel 1801, lo stabile all’interno del quale si trovava la sua bottega crollò. Joseph, manco a dirlo, rimase tragicamente travolto e sepolto sotto le macerie. Fortuna volle che del crollo, e del salvataggio dei superstiti, se ne occupasse Massimiliano IV Giuseppe, principe elettore di Baviera che, una volta salvato il ragazzo, lo prese in simpatia. Da quel momento Massimiliano, il futuro re di Baviera, contribuì all’istruzione del giovane, acquistando e consegnandogli libri. Obbligò, inoltre, il suo datore di lavoro a tollerarne gli studi. Otto mesi più tardi, ad appena 15 anni, andò a lavorare all’interno di un noto monastero sconsacrato, luogo dedito alla fabbricazione del vetro. Le sue tecniche, maestria e scoperte furono tali da sottrarre, all’Inghilterra, il primato sulla lavorazione di lenti ed ottiche. A solo 31 anni, Joseph, venne insignito del titolo di direttore dell’istituto. La Baviera divenne, in breve tempo, il fulcro dell’attenzione per chi necessitasse di strumenti all’avanguardia. Fu nel 1814, all’età di 27 anni, che inventò lo spettroscopio.
Un terremoto nel mondo scientifico. Uno tsunami astrofisico. L’inizio di qualcosa che diede la risposta ad una domanda – alla domanda – talmente complessa, talmente ambiziosa, da essere un tabù: di cosa son fatti gli astri?
All’epoca era normale, per quanto difficile, ragionare sulla grandezza, moti e distanza delle stelle. Immaginare di poterne comprendere materiali e composizione chimica era bollato, semplicemente, come folle.
Eppure la risposta, chiara e deterministica, è sempre stata lì: nella luce.
Come ho già avuto modo di descrivere, la luce a noi visibile non è altro che un una minima porzione delle radiazione elettromagnetica emesse dalla nostra stella: dal Sole. Semplificando, qualsiasi cosa, tutto, emette radiazioni elettromagnetiche, chi più, chi meno, a seconda del proprio livello energetico. Noi stessi, ad esempio, emettiamo radiazione infrarossa, debole, come qualsiasi termometro moderno, che non richieda contatto, potrà confermarvi.
Per secoli si credette che la luce fosse solo quanto umanamente visibile. Beh, come spesso accade, eravamo in fallo. La luce che percepiamo, i colori e le loro combinazioni, sono ben lontani dal coprire tutte le possibili frequenze, riportate qui sotto.

La genialità di Joseph fu quella di creare metodologie e strumenti per misurare ed analizzare la luce, le lunghezze d’onda e gli spettri visibili. Gli venne assegnato un dottorato, la cittadinanza onoraria di Monaco e divenne nobile. Non male per un orfanello travolto dal crollo di un edificio. Sfortunatamente, a causa dell’utilizzo intensivo di metalli pesanti durante le sue ricerche e lavorazioni, morì giovanissimo, tra indicibili sofferenze, a soli 39 anni. Avvelenato dalla sua stessa passione. Una tragedia per il mondo scientifico, pari al suicidio di Turing, o all’indifferenza riservata a Tesla, a mio parere. Sulla sua tomba, un’epigrafe concisa quanto significativa: Aproximavit sidera. Avvicinò le stelle. E mai descrizione fu più azzeccata.
Che la luce, passando attraverso un prisma, si scomponesse in differenti colori era già noto da tempo. In natura, avviene da sempre: l’arcobaleno. Artificialmente, si utilizzava un prisma di vetro, sfruttandone le proprietà fisiche e geometriche. Fino agli esperimenti di Isaac Newton, però, si pensava che i colori risultanti fossero una proprietà del prisma e non della luce stessa. Lui, nel 1672, basandosi sugli studi dell’italiano Francesco Maria Grimaldi, dimostrò il contrario: la luce veniva scomposta dal prisma nelle sue diverse componenti (di cui, una parte, è a noi visibile e percettibile: i colori). Fu in grado, infatti, di scomporre la luce bianca per poi riunirne, in un unico raggio, i fasci colorati. L’essere riuscito a tornare alla situazione iniziale dimostrò che il prisma non aveva nulla a che fare con quegli esotici colori.

Sulla base di queste osservazioni, nel 1802, il chimico e fisico inglese William Hyde Wollaston (ma si chiamavano tutti William?) osservò, senza tuttavia capirne il significato, lo spetto solare, notando come, all’interno della fascia contenente i differenti colori, ci fossero delle non meglio identificate linee scure. Newton, probabilmente per i mezzi dell’epoca, non le aveva notate.
Qualche anno più tardi, in modo analogo ma indipendente, entrò in gioco Joseph, l’orfanello. Grazie alle sue capacità, agli strumenti da lui ideati e perfezionati, nel 1814 riuscì ad analizzare lo spettro del Sole, della Luna e dei pianeti a lui visibili. A differenza di Wollaston, riuscì a vedere oltre 500 righe scure sparse e diffuse all’interno dello spettro di quegli oggetti.

Queste linee (che ad oggi portano il suo nome: linee di Fraunhofer) per il Sole, Luna e pianeti, risultavano nella stessa posizione, mentre per altri oggetti no.



La prima ed importante considerazione fu la seguente: la luce analizzata, osservando Sole, Luna e pianeti, era la stessa. Fu chiaro, quindi, che i pianeti ed il nostro satellite brillassero di luce riflessa – quella del Sole – piuttosto che emetterne di propria. Sembrerà banale, ma all’epoca non era affatto chiaro. Senza poter raggiungere quegli oggetti distanti, una prova empirica e schiacciante si pensava impossibile.
¡Toma castaña!
Fraunhofer non fu in grado di capire a cosa si riferissero quelle bande scure all’interno dello spettro, ma non si fermò. Testardo come uno stambecco, si incaponì sull’analisi della luce proveniente da altri astri, proprio di quella luce che, da sempre, si immaginava non contenesse alcun che, alcuna informazione utile sulla sorgente che l’abbia prodotta. Joseph puntò il proprio strumento su molte e diverse stelle, trovando nuove configurazioni di bande scure e riconoscendo dissonanze e similitudini ricorrenti. Ciò che lasciò, quindi, fu una moltitudine di osservazioni ed analisi, note e disegni riguardo quali bande fossero state riscontrate in quale astro.
Qualsiasi cosa, quelle bande, significassero.
Ci pensò il fisico tedesco Gustav Robert Kirchhoff a trovare la risposta. Dopo gli esperimenti condotti insieme al collega ed amico Robert Wilhelm Bunsen, nel 1859 enunciò tre leggi fondamentali. Ciò che fecero fu osservare, in laboratorio, lo spettro di emissione derivante da fiamme a cui addizionarono sali di diversi elementi chimici. I risultati, strabilianti per l’epoca, furono la base per le sue teorie e leggi.
La prima legge cita che che un corpo denso ed incandescente (solido, liquido o gas ad alta pressione) genera uno spettro continuo. La seconda, che un gas rarefatto ed incandescente (quindi a bassa pressione) genera uno spettro ad emissione, ovvero un debolissimo spettro continuo con specifiche righe più brillanti del fondo. La terza, ed ultima, sostiene che una sorgente che emette uno spettro continuo ed un gas freddo posto davanti ad essa generano uno spettro di assorbimento, ovvero uno spettro continuo con specifiche righe scure, che corrispondono alle righe brillanti dello stesso gas incandescente.
Se avessi un corpo molto caldo, composto di gas ad alta pressione, genererebbe uno spettro continuo, per la prima legge. E’ questo il caso del nucleo, e solo del nucleo, di una stella.
Se avessi del gas rarefatto, genererebbe un debolissimo spettro continuo con delle righe brillanti. Queste righe, la loro posizione, è la firma inequivocabile degli elementi di cui il gas si compone. E’, esagerando un po’, il codice a barre (colorato!) degli elementi all’interno del gas. E’ il caso delle nebulose ad emissione. Planetarie incluse.
Il caso di una stella, invece, ricade nella terza legge. La situazione è quella di un nucleo incandescente che, per la prima legge, emette uno spettro continuo. Parte di questo spettro, però, è assorbito dal gas degli strati superficiali dell’astro (ma solo perché, prospetticamente, si trovano sovrapposti rispetto al nostro punto di vista), decisamente più freddi rispetto al nucleo. Il risultato dell’assorbimento sono le bande nere che erano sfuggite a Newton ma non a Wollaston, Fraunhofer e Kirchhoff. Le linee scure su fondo chiaro coincidono con quanto vedremmo, brillante su fondo scuro, per lo stesso gas, se non avesse, alle spalle, una fonte di calore maggiore rispetto alla propria temperatura.

Ed ecco, finalmente, il significato delle bande scure nella spettrografia stellare: indicano il contenuto, in termini di elementi, degli strati superficiali degli astri.
Determinata la corrispondenza tra banda (scura o chiara che sia, è indifferente) e materiale – e lo si può fare anche sulla Terra – è stato relativamente semplice capire di cosa fossero composte le stelle analizzate, quali fossero i materiali nei loro strati superficiali e, di conseguenza, cosa avesse prodotto la nucleosintesi sin ora. Eccone degli esempi, ecco i “codici a barre”, in emissione, dei principali elementi prodotti dalla nucleosintesi stellare:





Ora, nell’Agosto del 1864 i coniugi Huggings: William (un altro!) e Margaret, decisero di analizzare lo spettro emesso da NGC 6543, la bellissima Nebulosa (planetaria) Occhio di Gatto, nella costellazione del Dragone.
Avevano già capito, e dimostrato, che c’era una differenza sostanziale tra nebulose e galassie, all’epoca tutte catalogate come generiche nebulosità. Le galassie (quelle che – ora – sappiamo essere galassie), infatti, presentavano uno spettro (continuo!) molto simile a quello delle stelle (beh, ne sono piene!) mentre le nebulose (quelle che – ora – sappiamo essere nebulose) presentavano lo spettro di emissione che ci si sarebbe aspettati da un gas rarefatto (ricordate la seconda legge di Kirchhoff?), tipicamente idrogeno.
Quello che videro quando analizzarono lo spettro di quello che – ora – sappiamo essere una nebulosa planetaria, rimasero sorpresi ed interdetti: non era nulla di simile rispetto a quanto già osservato.
In primis, si accorsero di essere davanti a qualcosa di gassoso e rarefatto. Ciò che osservarono furono linee di emissione (seconda legge), non uno spettro continuo (prima legge).
In particolare, poi, notarono due barre luminose in corrispondenza dei 500.7 e 495.9 nanometri, tra l’azzurro ed il verde. Nessun elemento, nulla di conosciuto ed analizzato sul pianeta Terra, produceva linee di emissione in quei punti. Lo annotarono come azoto (N, nella figura), la cui firma era simile, ma non identica. Identificarono una della linee di emissione dell’idrogeno (H, nell’immagine) e rimasero sorpresi della mancanza di magnesio (Mg) che avevano, invece, osservato all’interno di altre nebulose (non planetarie).

A prescindere dall’errore iniziale di pensare che le linee 500.7 e 495.9 fossero da attribuirsi all’Azoto, data l’impossibilità di definirne la provenienza, vennero giustificate con l’esistenza di un nuovo, sconosciuto, elemento: il nebulium.
Lo stesso, infatti, era successo per quanto riguarda l’ Elio (He) che, osservato indirettamente sul Sole tramite la spettroscopia, venne solo successivamente isolato e prodotto sulla Terra. Ironico, dato che è il secondo elemento più abbondante nell’universo.
E’ interessante notare quanto siano simili, tra loro, le linee di emissione provenienti da diverse nebulose planetarie. Questo dubbio, questo punto di domanda sul nebulium, rimase pendente per i successivi 50 anni.


Fu nel 1920 che i fisici, in particolar modo l’americano Ira Sprague Bowen, capirono che quelle linee di emissione non derivavano da un elemento sconosciuto, ma piuttosto da elementi noti, ma in condizioni particolari, estreme, di bassissima densità. Sulla Terra, condizioni simili non sono raggiungibili, pertanto ne risulta impossibile un’osservazione ed analisi empiriche. Nelle vastità del cosmo, invece, è assolutamente possibile che un gas raggiunga un livello di rarefazione tale da permettere questa condizione. Queste linee, infatti, appaiono come conseguenza di elementi ionizzati in modo peculiare, una situazione che, in presenza di densità maggiori, si verificherebbe per un periodo di tempo troppo limitato per risultare percettibile. A queste linee è stato attribuito il nome di linee proibite, non tanto perché impossibili, piuttosto perché improbabili.
Prendiamo l’esempio dell’ossigeno ionizzato due volte [OIII] (elemento a cui, l’energia di una stella o le collisioni con altri atomi, abbiano strappato due elettroni). E’ sua, infatti, la paternità di quelle due linee tra l’azzurro ed il verde notate dai coniugi Huggings. E’ lui, è l’ossigeno, il nebulium; solo in una forma rarissima ed impossibile da ottenere nei nostri laboratori. Persino il vuoto spinto prodotto dalla migliore tecnologia moderna risulterebbe troppo denso per evitare che, questo elemento ionizzato due volte, entri in contatto con altri elementi a lui simili, scambiandosi elettroni e decadendo in uno stato non eccitato. Di fatto, non sarebbe più ossigeno ionizzato due volte e non emetterebbe in quella banda dello spettro. Oggi giorno, linee proibite dell’azoto ionizzato (N II), dello zolfo ionizzato (S II) e dell’ossigeno ionizzato una volta (O II) e due volte (O III) vengono frequentemente rilevate nell’analisi di ogni nebulosa planetaria. E’ interessante notare che un eventuale osservatore all’interno di una planetaria, sorvolando sulle sue possibilità di sopravvivenza, non si renderebbe conto di nulla. Attorno a lui, il vuoto più vuoto del nostro vuoto, qui, sulla Terra.
Fu solo nella tarda, prima, metà del ‘900 che si riuscì a metter insieme tutti i pezzi del puzzle: la fisica dell’atomo, le reazioni nucleari, la spettroscopia e le osservazioni dirette. Finalmente si capì cosa fossero, da dove venissero e quale futuro attendesse ogni nebulosa del genere. Centinaia di anni e scienziati, sforzi congiunti pagati, da alcuni, a caro prezzo. Enormi e faticosi passi avanti per qualcosa che, ora, diamo per scontato.
O peggio: studiamo svogliatamente sui banchi di scuola. Sveglia, gente.
Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti. (Isaac Newton)
Le moderne tecnologie hanno permesso ai telescopi di andare nello spazio, di non esser limitati dall’atmosfera terreste. Le osservazioni non si limitano più a quella sottile fessura che noi umani possiamo percepire: lo spettro visibile. Molti sono i dubbi e le domande, ma in piedi e sulle spalle di molti, continuiamo la nostra ricerca.
Ora, guardiamo più in là, e meglio. Il risultato? Giudicate voi stessi.

Molte delle precedenti immagini sono il risultato di lunghissime esposizioni: singole fotografie che han catturato la luce per diversi minuti.
Vabbè, OK, luce. Ma Quale?
Immaginate di voler ascoltare cosa stia dicendo una persona che, purtroppo, si trovi all’interno di un ambiente chiassoso. Certo, potreste tendere l’orecchio, fare del vostro meglio e capire quanto più possibile del discorso, accontentandovi di quanto compreso, a fatica, perdendone i dettagli, in quel trambusto generale.
Fantozzi: Io sono stato azzurro di sci!
Calboni e Sig.na Silvani: Eh?
Fantozzi: Io sono stato nella nazionale di sci!
Sig.na Silvani: E lo dice così?!? Mah! Ha sentito Calboni? Eh… che bravo!
Calboni: Sì, vedremo… ce lo dimostrerà!
Fantozzi: Veramente… sono dieci anni che non scio…
Calboni: Eh?
Sig.na Silvani: Come?
Fantozzi: Dicevo che saranno vent’anni che non scio…
Sig.na Silvani: Cosa?
Sig.na Silvani: Parli forte, non si capisce!
Fantozzi: Sto dicendo che saranno trenta, trentacinque anni che non vedo un paio di sci!
L’ideale sarebbe disporre di un telecomando per zittire gli altri, diminuirne il vociare fino a farlo sparire, limitando, quanto più possibile, quel rumore di fondo, quei dettagli inutili e fuorvianti, senza, però, influenzare il parlato dell’unica persona che ci interessi.
Beh, in astronomia, ci sono i filtri.
E’ prassi ormai comune utilizzarli, tra l’osservato e l’osservatore, per evidenziarne i dettagli ed aumentarne il contrasto rispetto al resto. Diversi, specifici, dettagli producono un risultato sensibilmente migliore rispetto all’accontentarsi di vedere, e fotografare, tutto quanto colpisca l’obiettivo, l’occhio.
Insomma, una sorta di selezione all’ingresso.
Senza scender troppo nello specifico, che rimando a futuri interventi, per godere a pieno di dettagli e strutture dovremmo utilizzare dei filtri che lascino passare tutta – e solo – la luce presente sulle bande dell’ossigeno ionizzato due volte ed, eventualmente, dell’idrogeno. Il resto, verrà bloccato, rendendo la visione della planetaria e dei suoi particolari decisamente più nitida ed appagante. La maggior parte della luce emessa da questi oggetti deriva proprio dall'[OIII]. Anche la componente a cui contribuisce l’idrogeno sulla riga H-alpha è importante, ma rimane difficilmente fruibile in osservazione visuale: troppo vicino all’infrarosso, a noi invisibile. Quest’ultima, invece, è particolarmente interessante per l’astrofotografia. I sensori, se modificati, l’infrarosso lo vedono, eccome.
Io, di filtri, non ne ho ancora utilizzati, ma immagino saranno il mio prossimo acquisto.
E voi? Non avete filtri, telescopio e quant’altro? Poco importa, sguainate il vostro fido binocolo e puntate, quantomeno, l’enorme e luminosa M27. Ne varrà la pena. Aspettate una notte tersa e senza Luna.
Questi, i miei prossimi obiettivi, dopo che mi sarò gustato, di nuovo, le quattro nebulose planetarie catalogate dal buon Charles. Per ognuno, ho inserito i dati (che discordano, a seconda della fonte) sia di magnitudine apparente che di luminosità superficiale (in arcosecondi). Quest’ultima, funzione di luce e dimensione, indica quanto sia realmente visibile la planetaria. La magnitudine apparente, infatti, non tiene conto delle dimensioni (apparenti) dell’oggetto. A parità di magnitudine, una nebulosa estesa sarà meno visibile di una piccina e concentrata dato che la propria luce, la magnitudine apparente, sarà “spalmata” in uno spazio bidimensionale maggiore. E’ come avere a disposizione una boccetta di vernice e dover pitturare una piccola parete o una stanza intera. La quantità di colore, la magnitudine apparente, sarà la stessa in entrambi i casi. La luminosità superficiale, l’intensità della tintura sul muro, sarà tanto minore quanto sarà estesa la superficie da pitturare.
Ad ogni modo, mi farò un’idea dell’effettiva visibilità di questi oggetti alla prima occasione.
Nome | Magnitudine apparente | Dimensione apparente | Luminosità superficiale | Costellazione |
NGC 7293 (Elica) | 7.3 | 17.6′ | 22.2 | Aquario |
NGC 7008 (Feto) | 10.7 | 1.4′ | 20.1 | Cigno |
NGC 6818 (Piccola Gemma) | 9.3 | 46.2″ | 17.4 | Sagittario |
NGC 6891 | 10.5 | 21″ | 16.8 | Delfino |
NGC 6826 | 8.8 | 36″ | 16.3 | Cigno |
NGC 7662 (Palla di Neve) | 8.3 | 37.2″ | 15.9 | Andromeda |
NGC 7009 (Saturno) | 8 | 34.8″ | 15.4 | Aquario |
NGC 6790 | 10.5 | 10.2″ | 15.3 | Aquila |
NGC 6210 (Tartaruga) | 8.8 | 21″ | 15.1 | Ercole |
NGC 6543 (Occhio di Gatto) | 8.1 | 19.8″ | 14.3 | Dragone |
NGC 7027 | 8.5 | 18″x12″ | 14.1 | Cigno |
NGC 6572 | 8.1 | 15″ | 13.7 | Ofiuco |
Immagino che non riuscirò a vederle tutte durante la mia prossima battuta di caccia, ma mi accontenterò di fare nuovi amici, lassù, fossero anche solo 2 o 3. Il bottino sarebbe decisamente ghiotto.
Aspetterò il diradarsi delle nubi, lo svanire della nebbia, e cercherò di entrare nelle grazie del dio Azteco delle stelle: Xocotl. Non dovesse funzionare, beh, proverò a maledirlo.
Fantozzi: Io vorrei far dire una messa.
Prete: Pro o contro qualcuno?
Fantozzi: Contro.
Prete: Contro costa il triplo, trentamila, cantata cinquantamila.
Fantozzi: Cantata!
Prete: Lo odi molto, figliolo!