The dark side of the Moon

Penso sia meglio iniziare da -1.

Luce.

Cos’è? Bella domanda. Sono poche le persone a cui ho posto questa domanda, per sfida, che mi abbiano dato una risposta sensata. Più o meno le stesso numero di persone che sappiano cosa significhi, realmente, kyrie eleison.

Nel corso degli anni, dei secoli, menti brillanti – giusto per restare in tema – hanno studiato ed ipotizzato teorie corpuscolari, teorie ondulatorie, elettromagnetiche e quantistiche a riguardo.

Un bel casino. Roba tosta.

Ben lontano da addentrarmi in dettagli che io stesso ignoro, la luce non è altro che la porzione dello spettro elettromagnetico che l’occhio umano sia in grado di cogliere, di distinguere, di vedere.

Non a caso, la luce che vediamo coincide con la regione spettrale più intensa del Sole, la nostra stella. Il Sole emette onde elettromagnetiche, la maggior parte delle quali ha una frequenza che coincide proprio con la porzione dello spettro che noi percepiamo. Ripeto: non a caso. Ci siam evoluti così, in modo da poter cogliere quanti più dettagli possibile attorno a noi. Fosse il Sole diverso, vedremmo qualcos’altro. Vivendo in un mondo illuminato e permeato da luce diretta, riflessa, rifratta, abbiamo cercato di trarne il meglio, convergendo lentamente, tramite l’evoluzione, a quello che siamo, e vediamo, oggi.

2000px-em_spectrum_properties_it-svg

L’immagine qui sopra, tratta da Wikipedia, riassume parecchie cose interessanti. Si noti la linea relativa alla frequenza. A sinistra (in rosso) e destra (violetto), tutte le frequenze a noi non visibili biologicamente. I colori rappresentano, beh, i colori che possiam distinguere! La loro somma, nelle dovute proporzioni, costituisce la ben nota luce bianca. La prima linea, in alto, indica il fatto che solo le onde radio, parte degli infrarossi e tutta la luce a noi visibile penetra l’atmosfera terreste.

Avete mai fatto caso che alcune stelle hanno colori diversi dalle altre? Alcune, in particolare, appaiono blu, bianche, brillanti (Rigel, e Ballatrix, in Orione). Altre, invece, arancioni, opache (Betelgeuse, sempre in Orione). Beh, l’ultima linea dell’immagine ci viene incontro proprio in questo, dandoci un ordine di grandezza e un rapporto tra il calore di un corpo e la frequenza delle onde elettromagnetiche che emette e, di conseguenza, il suo colore. Questo perché il colore di un corpo è determinato dalla sua temperatura superficiale, secondo la Legge di Wien. Oggetti freddi (ma visibili) appariranno bruni o rossi. Oggetti più caldi, saranno gialli. Oggetti dalle temperature ancora più elevate appariranno azzurri. Questa è una delle pochissime cose che sarei in grado di dirvi guardando una stella. Non posso dirvi, ad occhio, se è vicina, lontana, grande, piccina. Non saprò nemmeno dirvi la temperatura esatta, ma potrò dirvi, grossolanamente, se è – relativamente parlando – calda o fredda. Di che colore è il Sole? Indizio: ha una temperatura superficiale di circa 5.500 gradi centigradi.

Ecco come apparirebbero le tre stelle citate prima, se fossero una accanto all’altra, dalla più fredda, a sinistra, alla più calda, a destra.

rhjhhsm

Gli oggetti che mi presto ad osservare e fotografare sono di diverso tipo: stelle e galassie, che vivono di luce propria, e nebulose, che emettono luce (o meglio, radiazione elettromagnetica) in particolari porzioni dello spettro, spesso non visibile (l’infrarosso) e vengono illuminate dalla luce delle stelle nelle loro vicinanze.

Di meccanismi e delle fasi stellari che influenzano la luce emessa dall’astro ne parleremo più avanti, quando entreremo in argomento. Ora non mi interessa tanto il perché, quanto il cosa. Voglio rimanere in tema luce, piuttosto che fonti di luce.

Una cosa che tutti sanno, o dovrebbero sapere, è che la luce viaggia, nel vuoto, ad una velocità ben definita: 299792458 metri al secondo. Per gli amici, diciamo circa 300000 chilometri al secondo. Un fottio.

Ora, quello che ci si dimentica ogni volta che si guardano le stelle, o qualsiasi altro oggetto celeste, è che noi non stiamo guardando l’oggetto per quello che è, ora. Quello che osserviamo è la luce che emette (o riflette) e che ha avuto il tempo di arrivare al nostro bulbo oculare. Quello che siamo abituati a sperimentare come immediato, nella nostra dimensione quotidiana, non lo è – affatto – se si considerano le immense, cazzilioniche, distanze spaziali.

Queste distanze sono talmente enormi da non poter essere espresse, agevolmente, in chilometri, piuttosto si utilizzano gli anni luce, ovvero la distanza percorsa dalla luce in un anno. Se tenete presente che percorra trecento-mila-chilometri-al-secondo vi rendete chiaramente conto che stiamo parlando di distanze, beh, come precedentemente detto, cazzilioniche!

Da questo ne consegue una cosa davvero interessante, quasi romantica. Ogni volta che mettete il naso all’insù non state osservando le stelle, ma vi state proiettando indietro nel tempo, osservando tramite decine di migliaia di macchine del tempo che vi mostrano, quella particolare stella, com’era decine, centinaia, migliaia di anni fa, a seconda della sua distanza dalla Terra. Osservando Aldebaran, ad esempio, quello che vediamo è la luce arancione partita dalla superficie dell’astro circa 66 anni fa. Potrebbe, paradossalmente, essere esplosa, spenta o rubata dai Meganoidi. Noi non lo sapremmo prima di 66 anni dal fattaccio. La luce stessa del nostro Sole, impiega circa 8 minuti ad arrivare da noi.

Figo.

Escludendo il sistema Solare, la stella più vicina a noi risulta essere Proxim Centauri, a soli 4 anni luce.

Torniamo alla luce. Siamo sapiens. Abbiamo due occhi. Vediamo perché la luce arriva sulla cornea, passa attraverso il cristallino ed il vitreo, e, finalmente, converge sulla retina. Finalmente? Mica tanto. Da qui inizia tutto un cinema che riassumo brevemente: i ricettori della retina convertono gli impulsi elettromagnetici della luce in segnali elettrici che vengono inviati al cervello che li interpreta ed acquisisce come immagini. Il compito di trasformare l’input elettromagnetico di luce in input bio elettrico per il cervello è demandato ai fotoricettori della retina che, a seconda della lunghezza d’onda che captano, inviano un corrispettivo segnale alla nostra materia grigia. Esistono tre diverse tipologie di speciali fotoricettori, detti coni, che sono sensibili, ognuno, ad un colore diverso: rosso, verde, blu. La combinazione dei tre, nelle diverse proporzioni, ci rende possibile vedere il mondo per come lo vediamo.

L’occhio umano, per necessità evolutive, è più sensibile al verde, ed alle sue mille sfumature, rispetto che agli altri colori. Perché? banalmente perché è nel verde che siam nati e vissuti, ed è nel verde che dovevamo scorgere cibo e predatori.

Ipotizzate di voler fare una fotografia diurna. Una qualsiasi. Quello che vi aspettate è che l’immagine, catturata dalla fotocamera digitale, sia il più possibile simile a quanto visibile ad occhio nudo. Ma come fa, la macchina, a trasformare la luce che colpisce l’obiettivo in un insieme di bit che, interpretati, diano un’immagine digitale? Alla base di tutto c’è il sensore che trasforma la luce in un segnale elettrico analogico, a sua volta convertito in digitale e, successivamente, immagazzinato su un unità di memoria.

Di sensori ce ne sono vari famiglie, tipi e modelli. A grandi linee, volendo semplificare, sono composti da una matrice di fotodiodi (i corrispettivi dei fotoricettori nel nostro occhio) ognuno sensibile al rosso, verde, o blu. Il comportamento di un sensore del genere è una semplificazione, ingegnerizzata, di quanto avviene nel nostro occhio e nervo ottico. Volendo fare un paragone, cornea, cristallino e vitreo possono essere identificati come l’obiettivo ed il relativo focheggiatore. La retina non è altro che il sensore. Il nervo ottico ed il cervello sono i cablaggi, software e unità di memoria utilizzati per veicolare e salvare l’immagine.

Come per l’occhio umano, anche il sensore è creato in modo tale da essere più sensibile al verde (applicando lo schema di Bayer nei fotodiodi) rispetto che agli altri colori. Il parallelismo e le similitudini sono, ovviamente, volute e ricercate, in modo che il risultato sia quanto più simile a quanto osservato ad occhio nudo. Questo è quello che vale per le normali fotocamere reflex digitali, ed è l’hardware di cui, per ora, dispongo. Ci sono altre tipologie di camere studiate specificamente per l’utilizzo astronomico, ma non sono il tema di questa discussione. Qui, si parla di luce.

Quello che è interessante è che il sensore digitale non è una cornea biologica. Indovinate un po’ quale frequenza dello spettro riuscirebbe a captare (anche se non è studiato per questo fine)? L’infrarosso! Come visto prima, parte dell’infrarosso penetra l’atmosfera terrestre ed arriva fino a noi. Noi, non lo vediamo. Il sensore, un po’. Proprio per questo motivo e per il fatto che il suo risultato debba essere somigliante a quanto vediamo noi, sul sensore stesso è applicato un filtro “taglia” infrarosso, che evita a questa lunghezza d’onda di eccitare gli fotodiodi. Per le vostre foto diurne, questo, è cosa buona e giusta. Il problema sorge, invece, con l’astrofotografia! Molti degli obiettivi che andrò a fotografare emettono anche in quella fascia e, catturando anche l’ infrarosso, le immagini si arricchirebbero di informazioni e dettagli ai quali, banalmente, sarebbe cieca, qualora mantenesse il filtro. Nasce quindi la necessità, o possibilità, di far rimuovere questo filtro per ottenere immagini notturne migliori, a discapito del bilanciamento del bianco automatico in quelle diurne. Di giorno la fotocamera sarà ancora utilizzabile, ma impostando il bilanciamento del bianco in manuale.

Questa modifica non è strettamente necessaria al fine di scattare fotografie apprezzabili, ma di sicuro si perde l’eventuale possibilità di cogliere parecchi particolari. Non ho intenzione di apportare questa modifica alle mie macchine, da subito, ma è qualcosa che, più avanti, dovessi continuare e perseverare, sarà da fare.

Qui, un esempio di Lorenzo Comolli, con due foto scattate allo stesso soggetto senza (sinistra) e con (destra) la rimozione del filtro taglia infrarosso. Le immagini parlano da sole. Si notino, a destra tutti i particolari persi nell’immagine di sinistra.

strum121h.jpg

Una situazione simile, anche in questo paragone:

ha-hargb-comparison-astrophotography

Quanto resisterò, dopo le prime fotografie, prima di modificare la mia reflex? Mh.

E questo è tutto quello che ho da dire sulla luce. Spero che dopo questa introduzione possiate sentirvi un po’ più illuminati!

 

2 pensieri su “The dark side of the Moon

  1. Pingback: H | Ex Astra

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...