Giovannona Coscialunga

E alla fine, ci vai.

Ti hanno dato buca tutte. Tutte quelle che hai in rubrica. Le hai chiamate, ci hai parlato, le hai invitate, ma niente. Ognuna con i suoi no e due di picche.

La Novena, in inverno, è in settimana bianca. Lo sanno tutti, lo sai anche tu ma poco importa, ci provi lo stesso mentendo a te stesso.  Sparando nel mucchio scrivi alle altre, qualcuna abboccherà!

Diventi insistente e multitasking: su WhatsApp con la piazzola del Sempione, al telefono con la viuzza sterrata del Lucomagno. Rispolveri persino l’area picnic a Saint-Barthélemy e ci intavoli un’accesa trattativa.

Facciamo da me? Da te? Vengo io, poi usciamo. Alle 8. No, ci troviamo là, dai, anche solo per poco. Non è un’appuntamento, credimi. Due amici che escono.

Hai aspettato che avessero la Luna buona ma ti è andata male, hanno l’umore plumbeo, la situazione è grigia. Sono in tumulto. Niente. Cornuto e mazziato. Stasera sei senza dama.

Ed è lì, è in quel momento che, preso da pruriti, passi dalla caccia grossa alla razzia nel pollaio.

C’è lei: la Giovannona.

Di bocca buona, sempre disponibile. Ben altra cosa rispetto alle algide fanciulle con cui vorresti condividere la serata, ma, si sa, in carestia non ti è dato esser schizzinoso. Non è la prima volta che ci vai. Ci hai già pomiciato in passato. La conosci: bassa, sempliciotta, senza troppe pretese. Delle serate passate con lei non ne vai particolarmente fiero ma, oggi come allora, volevi portar a casa il risultato, un’altra tacca sulla cintura. Come spesso accade, sei dovuto scendere a compromessi.

Alla fine, appunto, ci vai.

Sali in auto, punti il sud. La strada è interminabile. La prima metà noiosa e monotona: autostrada e tangenziali. Poi ti toccano provinciali, stradine e ti infili per risaie. Ti ritrovi per viuzze sterrate, sentieri, pregando Dio che nessuno le imbocchi in senso contrario al tuo. Imbrunisce, c’è nebbia. Ai lati: canali e campi brulli. Poco importa, ormai sei in ballo, prosegui e ti fai il segno della croce ad ogni faro in lontananza.

Due ore e mezza e sei dai lei. Lasciato alle spalle l’albugine padano, ti godi una bellissima Luna all’ 1% con Venere che si tuffa nel rosso del tramonto. Non vuoi che la Giò aspetti troppo, entri nei boschi e ti arrampichi sulle sue gambe storte e butterate. Cellulite d’asfalto che, tortuoso e sconnesso, ti indica la via per la tua signora.

Centocinquanta minuti. Se c’è traffico si superano anche le tre ore. E sei lì, al Pian dell’Armà, dalla tua Coscialunga, ad un soffio dai 1400 metri di altitudine. Sei lì e sai di essere nel nulla: quel posto non c’è nemmeno su Google, Sauron digitale. Non esiste, come il Molise. Il Sempione c’è. Lucomagno, pure. Novena, ovvio che sì. C’è persino l’aria picnic ed il piazzale dell’ Osteria del Passet nell’angolino della frazione del paesino in cui si trova.

Pian dell’Armà – pausa drammatica – no.

Che poi, quello che cerchi è in realtà il mitologico e leggendario “pratone dei milanesi” (e la piazzola antistante). Per arrivarci ti affidi a link geo-referenziati che custodisci al riparo da occhi indiscreti. Sei un animale alpino, non vuoi che si sappia che passi le serate di magra con la Giovannona.

Quel accrescitivo ti ha sempre fatto ridere. “Pratone”. Trattasi di poco più di un’aiuola, uno spiazzo di pochi metri rubato all’Appennino. Ma si sa, e’ dei milanesi. Per loro tutto ciò che è verde e sopra una certa metratura diventa, automaticamente, foresta tropicale da affrontare armati di machete. E luci, tante luci, per abbagliare e confondere i pericolosissimi grilli e scoiattoli autoctoni.

Sarà sempliciotta, ma la Coscialunga ha davvero un bel davanzale. L’esposizione a Est non è niente male.

Anche il Sud non è di certo da buttare. Due bei giocattoloni con cui divertirsi sodo.

Arrivi e la vedi, ti aspettava. La Giovannona è tutta in ghingheri, scosciata ed un po’ volgarotta. Aspettava te come tutti gli altri. Appunto: i milanesi.

Mh – fotografi –  milanesi.

I chiassosi, luminosi, fotografi milanesi. Arrivi al pratone e ci trovi, sia lì che nella piazzola antistante, una batteria di 10, 15 montature che, impudiche, puntano il cielo. Depresso, ti guardi attorno mentre i meneghini intrattengono il comune anfitrione con cori, e luci, da stadio. Per fari e chiasso sembra la Riviera romagnola il 15 Agosto, manca solo Sandokan che’l vusa deent in pizzeria…el vusa e canta Romagna Mia…

Nel buio: torce nervose, monitor puntati alla rinfusa sul prato. Tavoli, panettoni e bicchieri. Brindisi e grida da peracottai che non riescono a coprire il rumore, e puzzo nauseabondo, dei gruppi elettrogeni che brasano gasolio per alimentare quel ginepraio di cavi e dispositivi assetati di elettroni.

E’ lì che ti sale il minestrone, che ti scende la catena e ti parte un Venerdì. Sei indeciso se buttare a terra dei bocconcini di carne per attirare i lupi, se far partire la sassaiola o, semplicemente, spegnere i fari, sgasare e lanciarti sull’erba alla Carmageddon.

Mentre tieni a bada i tuoi istinti omicidi, proprio quando stai decidendo il da farsi, arriva lui. Il fotografo imbruttito, il milanese goffo. Come uno zombie, l’unico stimolo che possa attrarlo è un bagliore più luminoso del proprio monitor. Dal pratone in cui ha lasciato il setup a lampeggiare vuole raggiungere, dall’altra parte della strada, altri suoi simili intenti ad abbronzarsi alla luce dei laptop. Tu lo sai, loro no. L’astro-fotografo è un animale pigro, impacciato. Un bradipo urbano che si illude di poter sopravvivere all’aria aperta. Si veste in modo sgargiante ed inopportuno, ha la pupilla brasata da fotoni e, ovviamente, decide di camminare su una pozza trasformatasi in una lastra di ghiaccio. Una pista di pattinaggio lunga più di due metri. Lo scontro titanico tra il suo deretano e quella superficie marmorea è paragonabile alle forze in gioco durante l’esplosione di una supernova. Gambe all’aria, botta disumana. Testata sul ghiaccio, cuffia di lana nei lontani cespugli ed occhiali che, dal contraccolpo, si perdono nel buio.

Leggende narrano che li stia ancora cercando.

Preso da umana compassione fermi l’auto che, a fari bassi, scivolava silenziosa tra quel mercato del pesce. Scendi, ti sinceri che il milanese riesca a deambulare ed a verbalizzare le proprie intenzioni facendogli ripetere semplici vocaboli a lui noti (luce, monitor, io dovere fotografare, luce, luce, go-to, computer) e, sconsolato, cerchi un altro posto.

In effetti, a circa un chilometro più a valle c’è un angolino, lungo la strada, sfruttabile e con un buon Sud. Si perdono pochi metri di altitudine, un po’ di agio logistico, ma tutto sommato nulla di che. Giri l’auto, evitando ghiaccio e zombie, e scendi.

Ma anche lì, nulla da fare. Nel buio scintilla la torcia dell’ennesimo fotografo. Peccato, perché gli orizzonti non sarebbero stati malaccio. Sud-Est degno di nota ed il resto apprezzabilissimo.

Affranto, scendi ancora più a valle, salutando la Giovanna ed accontentandoti persino di peggio: sua cugina, la piazzola in prossimità di una frana di roccia calcarea. Almeno lì, soli, potrete pomiciare in santa pace. Poco importa con chi, quanto bassa sia e se abbia capelli grigio topo. Monti il telescopio e cerchi di toglierti dalla mente quelle chiome nero corvino che avresti trovato sulle Alpi, se solo una di quelle stangone ti avesse dato retta.

Lo spiazzo è grande, leggermente in salita. Essendo tappezzato di ghiaia sarà sicuramente meno umido del pratone. La pendenza ti permette, montando ai piedi di una cospicua frana grigiastra, di non doveri litigare l’orizzonte Est con gli alberi a bordo strada.

Non ha il davanzale della Giovanna, ma anche qui, con la cugina, c’e da divertirsi a piene… pupille.

E alla fine non è poi così male. Alla quarta piazzola, ti decidi e pianti le tende.

Valori SQM da Appennino, non superano i 21.1 (lo so, lo so, racconti da osteria millantano che qualcuno abbia misurato valori oltre i 21.5 ma, da buon pescatore, se non vedo la trota, o se la misura non sia di qualcuno che conosca, poco ci credo). L’Armà non indosserà il pizzo trasparente delle playmate alpine, ma di sicuro può sfoggiare un buon davanzale e discreto seeing. Sono questi i suoi assi nella manica.

Puntato il naso all’insù, ti porti a casa galassie, qualche cometa, amassi aperti e globulari. Una buona dose di stelle al carbonio. La grafite scorre fluida sugli appunti. Schizzi, astri, sfumature. La serata inizia, entra nel vivo. L’occhio si abitua e ti scordi dove sei, della fatica fatta per arrivare e ti lasci coccolare dall’abbraccio materno della Giovanna, della cugina o di qualsiasi piazzola a disposizione su quella tortuosa SP90 costellata di crateri manco fosse suolo lunare.

Passano le ore e la notte scivola veloce come lenzuola di seta. Nulla di cui andare davvero fiero, niente di memorabile, ma il prurito te lo sei tolto, la tacca sulla cintura l’hai fatta e puoi tornare alla base con qualcosa nel sacco: in testa e su cellulosa.

Impavido e curioso, ti arrampichi sulla frana dopo aver notato, cercando massi per tenere a bada il telo su cui poggi la rockerbox del dobson, che il calcare sgretolato contenga una buona quantità di cristalli di calcite. Un prezioso souvenir per i bimbi, da cavare a mani nude tra ghiaccio e sassi, scavando con bastoni e mezzi di fortuna. Scivoli sul friabile pendio e cadi tre volte tra cespugli e rocce, ma questo non lo dirai a nessuno.

quarzo

Prima di andartene, foto di rito con il bidone ed il fido 25mm in canna.

io-arma

Scendendo, lasci la tua briciola, da buon Pollicino. Anche qui, come al Nord, il tuo adesivo, tra muschio, licheni e catarifrangenti impolverati.

startan-arma

Stanco, sali in auto. Ti mancano le Alpi. Hai di fronte tre ore di asfalto. Adesso, però, senza l’adrenalina. Confidi nella chimica, ti rimane solo la Redbull.

Sopraffatto dall’idea di ciò che ti aspetta: l’impresa ciclopica del rientro, giuri – anche stavolta – di non tornarci più. Mobbasta.

E’ uno di quegli addii in cui ti neghi con eleganza, in cui ti congedi con un politico:

teniamoci in contatto, il tuo numero ce l’ho, ti chiamo io

Guidi e ti ficchi di nuovo in quel coacervo di stradine e risaie, nel buio. Sei stanco. Attorno: volpi e conigli nei campi spogli. Non incontri nessuno (per fortuna!) e fendi silenzioso la nebbia che ti separa da casa. Ti fermi per una foto furtiva. Vuoi il ricordo di quella strada, che tanto odi, come monito per scongiurare future visite.

arma

E ci credi, ci credi veramente. Non tornerai più dalla Giovannona.

Fino alla volta successiva. Lo sai, menti sapendo di mentire.

Arrivi. Mezzo vestito, coperto di terra ed infreddolito, dormi. L’indomani rivedi gli appunti. Sfumi le galassie, controlli i dettagli di vecchie osservazioni, confronti resa e disegni. Scrivi agli amici e condividi quanto fatto, visto, vissuto.

Alla fine arriva la fatidica domanda:

Allora, com’era l’Armà?

Al che, l’unica e plausibile risposta:

Simpatica.

Un pensiero su “Giovannona Coscialunga

  1. Molto simpatico. E detto da uno che frequenta il posto da 30 anni non può che essere un complimento. Ci sono ovviamente alcune inesattezze. Ma che importa? Conta l’essenziale.
    Unica tiratina d’orecchi (su questo non transigo): gente, imparate a firmare SEMPRE i blog con nome e cognome. È più corretto.
    Piero Mazza – Milano

    "Mi piace"

Lascia un commento